Recensione de “La nobile arte di misurarsi la palla” di Amleto De Silva (Round Midnight Edizioni, 2014)

Premessa necessaria per evitare che il mio entusiasmo sia frainteso: non sono una professoressa di Lettere con funzione di vicepreside, di quelle che secondo Amleto De Silva leggono e lodano qualunque fesseria in forma di libro, ma se l’autore mi chiedesse di incarnarne una durante una presentazione o una performance, lo farei senza esitare, come pure canterei una canzone di Pet Sounds a sua scelta, per dire – sono rimasta folgorata dalla sua citazione di I Just Wasn’t Made for These Times.
In compenso ho frequentato un corso di scrittura e ho pubblicato quello che Amleto chiamerebbe un Libro della famiglia con dentro l’amore, uno di quelli cui garantisce un sicuro successo in Italia – e allora perché il mio non l’ha avuto? Per due leggi ferree dell’esistenza e dello scrivere che, se fossi il tipo, mi fare tatuare: “ci sono delle regole, ma certe regole non valgono per te” e “se capita a te, allora non è una cosa buona”.
Il protagonista Enea Pellegrini è uno che crede nelle cose belle. Crede nella letteratura perché gli piace leggere e scrivere. Tutte cose che, nella scuola di scrittura dove approda e che si è pagato con gli ultimi soldi che ha, nessuno fa più. Nessuno è lì dentro per imparare, del resto, ammesso che qualcosa da imparare ci sia – ah sì, “la scrittura è togliere e non mettere”, questo non mi sento di buttarlo al cesso con tutto il resto, anche se non chiederei mai a questo autore di togliere qualcosa. Tutti sono lì nella speranza di conoscere le persone giuste e di fare la cosa giusta per entrare in un sistema letterario blindato e miope, e la cosa giusta di Enea è lasciarsi schiavizzare da Enzo Di Donna, un boss della scuola impegnato in mille marchette e in mille intrallazzi. Novello picaro, Enzo subisce inenarrabili disavventure e rischia di giocarsi la salute fisica e mentale, con il miraggio di essere pubblicato.
Nell’epigrafe finale Amleto dice che la storia è inventata, ed è un peccato perché un po’ ci speravo, non perché sia una sadica cui piace il pensiero che abbia patito davvero come Enea Pellegrini, ma perché ci ho visto tante di quelle cose vere sul nostro sistema letterario e sull’essere aspiranti scrittori o esordienti che dir si voglia che volevo mandarlo a memoria e usarlo come manuale di comportamento d’ora in avanti. E perché il romanzo di Anna e di Lucio che il maestro della scuola di scrittura massacra, trasformandolo nella storia d’amore tra una giornalista anticamorra e un giovane di Scampia, l’ho letto davvero e lo consiglio a tutti, è Statti attento da me. E perché passo i giorni a schiumare quando sento la solita beffa rivolta a chi vuole scrivere: “si scrive troppo e si legge poco, e qualunque scafesso ha un romanzo nel cassetto”. E infine perché, siamo seri, se pure se ci fosse qualcosa di vero, ti pare che l’autore lo ammetterebbe, a rischio di farsi masticare e risputare da gente come Enzo Di Donna, che quella sicuramente esiste?
Ma c’è un principio essenziale che, come un filosofo illuminista del Settecento, Amleto travasa con apparente svagatezza nella sua finzione, e resta valido: bisogna sapersi misurare la palla, capire chi si è e chi si ha davanti. O meglio, che è lo stesso nel nostro tristo paese e di questi tristi tempi, capire i ruoli, capire le posizioni. Capire che il male e il brutto esistono, che esistono gli stronzi, a mio parere qui delineati anche più efficacemente che nel saggio Stronzology.
Intanto ci consoliamo con la consapevolezza che ci sono ancora in giro libri così belli e così ricchi da leggere, e immagino anche da scrivere, per chi ci riesce. Che esiste ancora un modo di fare umorismo che non sia semplice paraculaggine, un umorismo feroce e indignato che tocca la nuda sostanza delle cose. Che poi direi che quello è proprio lo scopo della letteratura, ma poi cadrei in quello che Amleto chiama lo stile scoperta dell’acqua calda e quindi mi astengo.