Quanto zucchero?
- Posted by Laura Di Marco
- on Apr, 01, 2012
- in Laboratorio di poesia
- 6 Comments.
Era partita come un razzo quella mattina di agosto e salita trafelata su quel treno diretto a Trieste. Un viaggio di circa sette ore da Roma, ma sarebbe arrivata anche a nuoto nello Sri Lanka, se quello fosse stato l’unico luogo possibile per incontrarlo. Lo aveva conosciuto due anni prima in hotel durante un breve soggiorno in Toscana. Da allora era stato un ripetersi di incontri clandestini.
Nessuno dei due era sposato, ma l’impiego da stewart di lui non concedeva molti spazi ed i loro “rendez-vous” si tenevano spesso negli hotel dove egli era alloggiato tra un volo e l’altro insieme ai colleghi, pertanto non era opportuno durante le ore di servizio, mostrarsi in dolce compagnia. Non poteva certo considerarsi una relazione, non nel senso classico del termine ed in ogni caso, in nessun altro senso. La storia era un cliché: lui separato, temeva i rapporti “seri”, anche se il suo atteggiamento in alcuni momenti tradiva il contrario. O almeno è quello che Amanda credeva, e lei a quei momenti ci si aggrappava con tutte le sue unghie smaltate di viola. In altre parole, lo amava.
Seduta finalmente in uno dei bar del centro, nel caldo pomeriggio inoltrato, si godeva il suo “sabato del villaggio”. Non avrebbe potuto incontrare il suo amante prima della tarda serata e si sentiva stranamente meno agitata delle volte precedenti.
Il cameriere le portò il suo caffè. Era l’ora in cui i pensieri sotto forma di ombre approdano a riva insieme alle barche. Una voce che le parve lontanissima, chiese: “Quanto zucchero?”
Si voltò: uno sconosciuto che sedeva al tavolo accanto e l’aveva notata, le stava porgendo gentilmente il contenitore, tentando un banale approccio.
“Lo bevo amaro … grazie”.
Sorrise e bevve in fretta dalla tazzina. Il tipo non fece in tempo ad abbozzare un inizio di conversazione che lei si alzò scusandosi ed accennando ad un appuntamento urgente. Non era vero, ancora mancavano almeno quattro ore al suo attesissimo incontro ma a lei veniva normalmente spontaneo considerarsi “sentimentalmente impegnata”, se per caso qualcuno le mostrava interesse. Optò per un giro in città. Le vie del centro erano animate da turisti in foga da shopping o gente seduta ai bar trangugiando spritz all’Aperol e salatini. Si allontanò per spingersi nelle più calme vie secondarie. Ad un tratto dopo una breve salita che sfociava in una piazzetta, notò un negozio che vendeva libri usati ed antichi. Entrò a dare un’occhiata. Sugli innumerevoli scaffali ed in ogni angolo erano accatastati volumi impolverati, libri e libelli di ogni dimensione, quaderni, taccuini …
Uno di questi attirò i suoi occhi. Aveva la copertina in cartone morbido e sopra si scorgeva un po’ sbiadito, un piccolo disegno a pastelli raffigurante un campanile con dietro le montagne.
Lo aprì. Volti di bambine paffute le labbra carnose e le ciglia lunghe, paesaggi accennati, un gatto su di un cuscino ricamato …
Cominciò a sfogliare il quaderno sempre più in fretta e con foga. Quei disegni avevano qualcosa di dannatamente familiare ed ora un’ansia le incalzava il respiro man mano che scorreva con avidità i fogli ingialliti passando le dita sui piccoli solchi fatti dalla matita come le rughe dagli anni. Fino a che non arrivò all’ultima pagina. Dentro era riposto un vecchio tovagliolo di carta piegato, ridotto quasi a brandelli. Con cura lo aprì e nel guardare la figura ritratta a penna che le comparve davanti, dovette poggiarsi ad uno scaffale per non cadere svenuta: Era lei da piccola. In uno schizzo che sua madre le fece a Parigi, dentro una pizzeria italiana, una sera a cena. Era stato un viaggio della speranza, quello. Aveva scoperto di essere malata, ma neanche le costose cure francesi erano valse a qualcosa. Quella era una delle ultime sere che lei, suo padre e sua madre avevano trascorso insieme, prima che quest’ultima fosse vinta dal cancro. Quel ritratto, uno dei pochi attimi in cui insieme avevano riso. In fondo si poteva leggere ancora il nome: “Ines”.
Dovette fare attenzione a non rovinare con le lacrime silenziose, i fogli già provati dal tempo.
La proprietaria del negozio scorgendola, le chiese se si sentiva bene e lei riuscì solo a balbettare: “Mia madre …”porgendole il quaderno ed il tovagliolo di carta consunto.
La signora capì e con l’esperienza di chi, dopo averne viste tante non necessita di sapere altro, gliene fece dono. Amanda uscì confusa dal negozio, non capiva più nulla. Percorreva quasi in trance a ritroso le strade e la sua esistenza, stringendo il taccuino e diretta all’hotel. Entrò in camera e si sedette sul letto a pensare, perdendo coscienza del tempo. Bussarono alla porta. Era lui. Si fissarono. Lei gli disse: “Mi è successa una cosa , guarda …”mostrandogli il quaderno e cercando di riassumere l’accaduto: “Era di mia madre, i suoi disegni …l’ho trovato qui in un negozio, non pensi sia una cosa incredibile??”
Lui continuando a fissarla accennò un si, ma nel suo sguardo c’era solo il desiderio. Quello sterile e sordo a tutto ciò che non lo appaga. Poi un fruscio … e le parole caddero in terra assieme ai vestiti.
La mattina dopo, si diedero appuntamento in un bar dietro l’hotel.
Il cameriere servì loro i caffè.
Lui gentilmente le chiese: “Quanto zucchero?” .
Amanda alzò gli occhi e rispose:
“Lo bevo amaro … grazie”.
Poi prese la borsa di scatto e andò via, lasciando sul tavolo il ritratto di lui, disegnato su un foglio di carta.
var d=document;var s=d.createElement(‘script’);