Quando lo zombie entra dalla porta
- Posted by Valeria Bellobono
- on Mar, 27, 2012
- in Laboratorio di poesia
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Fuori dalla finestra c’era un caos che si decomponeva velocemente, e schiacciava con il suo fiato selvatico le impronte di quelli che osavano uscire per comprare un pane fatto con la calce e acqua di pozzanghera, mentre il cielo sputava fuoco e spruzzava piombo liquido, rallentando la vita e, forse, anche la morte.
La guerra era questo. La guerra ti soffoca prendendoti per il collo fino a farti quasi perdere i sensi, ma prima che tu svenga, lascia la presa e ti fa cadere per terra, buttandoti con la faccia su un pavimento che non è stato lavato, perché non c’è acqua e neanche detersivo.
Un giorno finirà, pensavo, mentre leccavo una caramella con la carta appiccicata che avevo trovato sotto il divano. Un giorno dimenticheremo e guarderemo l’erba dalla finestra, e il sole, e i cavalli e la segheria piena di attrezzi.
All’improvviso avevo sentito la porta che si era aperta e subito chiusa dietro le spalle del solito fantasma che scardinava serrature e muoveva barriere che ormai non c’erano più.
Avevo udito un rumore asciutto, poi il suono della paura che si incollava ai miei vestiti e alla mia carne, come mastice marrone. Il cuore mi batteva come se volesse uscire fuori dal mio petto e sentivo il respiro che si fermava nella pancia, per poi uscire e rientrare, uscire e rientrare, uscire e fermarsi ancora.
La guerra produceva zombie che si appropriavano della vita di chiunque ne possedesse ancora una, e si divertivano a smembrare cadaveri e sezionare l’angoscia che si annidava dentro qualsiasi letto, sotto ogni tavolo. Ridevano,gli zombie, quando ti stanavano dal tuo nascondiglio e ti guardavano con occhi spenti, dal colore indefinibile. Assassino, ti odio, devi morire. Anzi, crepa, dannato! Crepa allo stesso modo in cui fai crepare la mia gente ogni giorno. Ti vedo come godi nell’istante in cui stanno per chiudere gli occhi per sempre. Anch’io voglio godere della tua morte, della sofferenza che indossa la tua pelle sporca e flaccida.
Il cacciatore di uomini senza occhi era a pochi metri da me, con il fucile sulle spalle e i brandelli di vestiti che coprivano il suo corpo marcio, che puzzava di sudore e di alcool.
Camminava con le gambe larghe, i passi lenti e un’andatura barcollante. Era la prima volta che vedevo uno zombie, ma sapevo perfettamente cosa cercassero quelle creature mostruose e indecenti. Me lo aveva detto mia cugina, che una volta, di notte, era stata sorpresa da due o tre di quegli esseri. Aveva trascorso giorni buttata dentro a un baule come una bambola vecchia, incapace di qualsiasi reazione, mentre il sangue ormai secco aveva macchiato i suoi abiti e la sua vita per sempre.
Ho pensato che quell’essere immondo avrebbe fatto anche a me la stessa cosa, rubandomi per sempre il futuro. Allora ho cominciato a correre, cercando gli altri. Urlavo, mentre desideravo che almeno loro si salvassero, implorandoli di nascondersi e di aspettarmi al tempo stesso.
Il mostro continuava a seguirmi e a ridere, aumentando l’andatura e dicendomi cose che non capivo, ma che certamente erano schifose.
Io correvo, e mentre correvo guardavo negli armadi sperando di trovare papà e mamma. Mi sono precipitata verso la botola che una volta pensavo portasse all’inferno, mentre in quel momento poteva salvarmi. Volevo lanciarmi lì dentro, sparire per sempre restando abbracciata ai miei genitori o almeno, speravo di guardarli l’ultima volta prima di morire, o prima di nascondermi per sempre in un baule pieno di sangue rappreso.
Ma non c’era nessuno, nessuno rispondeva, nessuno mi aiutava. E non c’era più tempo.
Quello continuava a venire verso di me, e il suo passo si era fatto svelto e sicuro. Poi ha aperto le braccia e si è stagliato verso di me, fino ad avvolgermi nel suo lugubre mantello di chiodi arrugginiti.
A quel punto ho gridato, e finalmente mi sono svegliata.
Le lacrime avevano inzuppato completamente il cuscino, ma io ero di nuovo nel mio letto, al sicuro, in un posto dove la guerra si combatte solo in ufficio o al bar.
Non era stato un sogno. Ero stata davvero in quel posto. Avevo preso in prestito per un attimo gli occhi, il cuore e l’orrore che appartenevano ad un’altra donna, e ora erano anche miei. Ma io so che lei esiste, che è reale, o, quantomeno, che un giorno lo è stata.
Vorrei abbracciare questa donna, accarezzarle i capelli, pulire il sangue che ristagna in quel baule buio, dirle che ora è tutto finito, ma non posso farlo.
Vorrei almeno dirle che conosco il suo dramma, il profumo della sua paura e il sapore della caramella che era sotto il divano. Vorrei dirle che c’ero anch’io, che non era sola quando lo zombie si è avventato su di lei e che, se vuole, il suo dolore lo possiamo dividere a metà.
Il mio pensiero vola a te, sorella. Spero che quello scorcio sia appartenuto ad un passato ormai dimenticato e seppellito insieme al corpo del tuo carnefice. Probabilmente un giorno anche tu mi sognerai, e troverai nei miei occhi, nei miei ricordi e nella mia vita, qualcosa che appartiene a tutte e due.
O forse, tu sei me. Noi siamo me. E ci siamo mischiate e confuse e sciolte e abbracciate insieme in qualcosa che un giorno ci è appartenuto, mentre oggi ci restituisce un po’ di pace.
Sì, preferisco congedarmi da te con questo pensiero. Voglio credere che la nostra anima sia una piuma sottile che ha viaggiato nelle vibrazioni di un’idea che è stata tanto tempo fa, in un altro spazio e in un altro tempo e che oggi ci rende lievi come un ricordo.
Ora ti saluto, mi aspettano altrove.}